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True Story Award 2021

La mia vita nei gulag albanesi

Dalla nascita, nel 1945, fino all’emigrazione in Italia nel 1991, Rudina Dema è stata prigioniera politica nell’Albania comunista. Salvo qualche periodo di libertà vigilata, ha sempre vissuto nei campi di lavoro forzato. Attraverso la sua testimonianza, molto umana, emerge la storia – ancora non pienamente svelata – del regime più feroce e paranoico del vecchio blocco dell’est.

PARTE I
18 dicembre 2019

La cancellata d’ingresso è tutta arrugginita, e appena oltre ci sono due palazzine che cascano a pezzi. Un grosso spiazzo di terra e di erba, gialla e secca, bruciata dal sole, si apre più avanti. Ai suoi lati campeggiano alcuni edifici, pure questi spolpati dal tempo. Non hanno più le porte, né le finestre. Cocci di mattoni all’interno. Così appare il campo di concentramento di Tepelenë, nel sud dell’Albania. In questi ruderi, costruiti dall’esercito italiano durante la Seconda guerra mondiale, il regime comunista albanese rinchiuse tra il 1949 e il 1954 centinaia di famiglie: madri, fratelli, mogli e figli di uomini invisi a Enver Hoxha, il dittatore di Tirana.

I prigionieri alloggiavano in grosse stanze comuni. Dormivano su dure tavole di legno. D’estate caldo soffocante, d’inverno freddo gelido. Il lavoro forzato era un massacro. Si saliva sulle montagne alle spalle del campo, si segavano alberi, si caricava legna sulla schiena – pesanti fastelli per le donne, grossi tronchi per gli uomini – e la si riportava giù al campo. Le precarie condizioni igieniche e l’alimentazione misera acuivano gli stenti. Molti detenuti persero la vita. Trecento i bambini che non ce la fecero. Un piccolo memoriale in pietra bianca, in mezzo allo spiazzo, omaggia le vittime.

Il campo fu smantellato dopo che le Nazioni Unite denunciarono le condizioni disumane per i reclusi, più di tremila. Una volta fuori, il loro destino non mutò. Continuarono a essere sfruttati in altri campi, soprattutto quelli intorno alla città di Lushnjë, nell’Albania centrale.

Rudina Dema, classe 1945, riuscì a sopravvivere all’inferno di Tepelenë. Entrò nel campo nel 1949, restandovi per due anni. I ricordi di quell’esperienza sono pallidi, eppure alcuni episodi le si sono ben fissati in testa. «Ci mettevamo in fila con in mano una tazza, come nei film sugli ebrei nei lager. Ce le riempivano con una minestra di grano duro. A volte ci trovavamo dei vermi». E poi i rapporti con gli altri bambini del campo: «Facevamo delle palle di fango e ce le tiravamo addosso. Nelle baracche dormivamo gli uni accanto agli altri, stretti come sardine».

Ho incontrato Rudina il 30 agosto 2017 nel corso di una commemorazione organizzata a Tepelenë dalla Autoriteti për Informim mbi Dokumentet e ish-Sigurimit të Shtetit 1944-1991, l’agenzia del governo che dal 2016 scava nella storia repressiva del regime più paranoico e violento dell’Europa comunista. Condannò a morte centinaia di persone e tappezzò il territorio di campi per il lavoro forzato e prigioni, oltre a istituire un apparato di sicurezza e repressione – la Sigurimi – fondato su una rete gigantesca di collaboratori. Tutti spiavano tutti; tanti gli scheletri nell’armadio. La memoria, per via di questo, è rimasta materia sensibile anche dopo la fine del comunismo nel 1991. Le vittime del regime sono restate ai margini, tenendosi tutto dentro. Solo adesso possono iniziare a narrare pubblicamente le loro sofferenze.

Quelle di Rudina Dema non si limitano alla sola Tepelenë. Ha trascorso una lunga parte della sua vita nei campi di lavoro forzato o in libertà vigilata. Nel 1984, a 39 anni, la ottenne per tutto il territorio albanese. L’anno dopo morì Hoxha, e il contesto politico si fece meno rigido. Ramiz Alia, il successore, approntò qualche timida apertura. Rudina continuò però a temere che il regime potesse di nuovo accanirsi contro di lei. Così nel 1991, quando iniziarono i grandi sbarchi degli albanesi in Italia, con il marito Haxhi e la figlia Megi, di tre anni, salì a bordo di una delle navi cargo che da Durazzo, all’inizio di marzo, si diressero a Brindisi. Il comunismo albanese stava collassando, e fu proprio quello il motivo per cui ci si poté imbarcare: il governo non controllava più nulla. Ma Rudina pensava che sarebbe riuscito a ristabilire l’ordine e forse avrebbe scatenato un’ondata di arresti. L’Italia era un’occasione per ricominciare daccapo, e volle coglierla.

Qualche mese dopo lo sbarco, sempre nel 1991, Rudina, Haxhi e Megi si stabilirono a Rieti. Non si sono più spostati. Oggi vivono in un modesto alloggio popolare. Con loro c’è pure Tommaso, il figlio che Megi ha avuto dieci anni fa.

A Tepelenë Rudina mi aveva riassunto la sua vicenda per sommi capi, citando snodi storico-politici dell’Albania comunista che non riuscivo a cogliere appieno, non avendone sufficiente conoscenza. Ciò nonostante, la forza delle sue parole e dei suoi occhi, un po’ tristi ma molto penetranti, mi avevano convinto del fatto che questa storia meritasse di essere ascoltata. E così sono andato a Rieti, due volte, per capirla e inquadrarla meglio.

Rudina è una dei cinque figli di Hysni Dema, ex colonnello dell’esercito di Zog, re dell’Albania. Quando nel 1939 l’Italia fascista la conquistò, Dema fu esiliato in Toscana. Tornò in patria nel 1942 e assunse ruoli di rilievo nel Balli Kombëtar, l’organizzazione nazionalista che stringendo un’alleanza tattica con l’occupante nazista, sostituitosi nel 1943 a quello italiano, cercò di impedire che i partigiani di Enver Hoxha prendessero il potere. Tentativo fallito. Hoxha liberò l’Albania nel 1944, imponendosi come autocrate. Dema si diede alla macchia, riuscendo a riparare in Grecia, dove sarebbe morto in circostanze poco chiare nel 1954.

«Mio padre, con mamma incinta di me, scappò. Non l’ho conosciuto, e non ho idea di cosa sia l’amore paterno. Quando sento Megi che si rivolge a Haxhi chiamandolo papà penso: “Ma cosa significa? Che vuol dire?”. Con quel padre mai visto ero molto arrabbiata. Avevo una vita penosa, senza giocattoli, senza fiabe, senza libertà. Dicevo a mia madre, Vasfie, che un buon padre non avrebbe mai dovuto lasciar soli moglie e figli. Lei si irritava, mi dava una ciabattata e urlava: “Ma non ti vergogni?"».

Hysni Dema è il reato di Rudina, di sua madre e dei suoi fratelli, tutti più grandi di lei: Tefta (1927), Vera (1930), Ali (1933) e Sazan (1935). Nell’Albania di Hoxha un nemico del popolo, un cospiratore, contagiava tutta la famiglia con il suo status.

«Dopo aver preso il potere i comunisti bussarono alla porta della nostra grande casa di Tirana, la requisirono e ci cacciarono. Mamma scese giù in vestaglia, con il suo pancione. Si recò con Vera, Ali e Sazan nell’abitazione di Tefta e di suo marito Shaqir Muça. Sono nata lì, il 20 febbraio del 1945». Pochi mesi dopo la nascita di Rudina, i Dema furono trasferiti in un campo di lavoro forzato a Berat. La loro vita di prima, tranquilla e agiata, non sarebbe mai più tornata. «Ci caricarono sul camion, come cocomeri, e ci portarono via. Risparmiarono Tefta, solo perché essendo sposata non figurava più nel nostro nucleo familiare».

Nei tre successivi anni, Vasfie e i figli furono spostati in vari campi: Porto Palermo, 4 Rruget Shijak – un luogo nei pressi di Durazzo – e Kruja. Poi nel 1949 giunsero a Tepelenë. Un mondo a parte, tremendo. Tefta non poté più recarsi in visita da loro, cosa possibile nei campi dov’erano stati prima. Dei mancati incontri con lei, Rudina serba memoria. Dei bimbi morti al campo invece no: «Sentivo solo il pianto disperato delle mamme».

All’inizio del 1951 il regime decise di liberare tutti i bambini di Tepelenë, oltre a qualche detenuto non così pesantemente macchiato a livello politico. Rudina uscì dal campo; i suoi familiari vi rimasero. «Mamma mi affidò a una famiglia di Kruja, tra quelle scarcerate. Erano i primi giorni di marzo. Ci fecero salire su dei camion militari e ci condussero a Tirana. Arrivammo di notte, era molto freddo e pioveva. Ci portarono in Piazza Skanderbeg, in pieno centro, scaricandoci davanti alla moschea. Dormimmo lì davanti, riparandoci sotto le grondaie. Al mattino presto arrivò l’imam, e il signore di Kruja, il capofamiglia – mi vergogno a ancora dirlo, ma non ne ricordo il nome –, gli spiegò chi fossi, chiedendogli di portarmi da Tefta». Il religioso assicurò che si sarebbe prodigato, ma prima doveva recitare le preghiere. Una volta terminate, si diresse con Rudina al bazar che a quel tempo si teneva su un lato della piazza. Si fermò presso la bancarella di un mercante che vendeva cappelli. Era stato vicino di casa dei Dema, e li conosceva molto bene. L’imam gli descrisse la situazione, e lui mandò di corsa suo figlio a cercare Tefta. «Nell’attesa mi diede una tazza di latte con del pane dentro. Lo mangiai voracemente, come una bestia, tanto era affamata». Poco dopo Tefta arrivò, e Rudina le si gettò tra le braccia. «Mia sorella mi portò subito da un barbiere per farmi tagliare i capelli a zero: erano pieni di pidocchi».

Le due sorelle si ritrovarono, ma per Tefta quella gioia non poteva essere assoluta. Stava vivendo tempi difficilissimi. Appena qualche giorno prima dell’arrivo di Rudina, il primo marzo per l'esattezza, Leone Cieno, l’ingegnere italiano a cui si era legata dopo la fine prematura del suo matrimonio con Shaqir Muça, era stato deportato in Italia. Giunse in Albania durante l’occupazione fascista. Dopo la guerra rimase: servivano bravi tecnici per la ricostruzione. La sua vita cambiò il 19 febbraio del 1951, il giorno in cui una bomba esplose nel cortile dell’ambasciata sovietica: la messinscena con cui il regime scatenò una dura purga contro gli intellettuali e i residenti italiani, tutti accusati di essere al servizio dell’imperialismo occidentale. Cieno fu cacciato e Tefta rimase sola, incinta di otto mesi. Il 31 marzo nacque un maschietto. Fu chiamato Pierino.

Per alcuni anni Leone e Tefta mantennero una corrispondenza. Lei gli inviava le foto di Pierino che cresceva; lui qualche soldo. Poi l’Albania scelse la via dell’isolamento più totale, e ogni comunicazione con l’esterno fu proibita. Leone non seppe più nulla di Tefta e di Pierino. Non li dimenticò, ma si rifece una vita, in Sardegna, accompagnandosi con un’altra donna. Pierino crebbe senza padre, come Rudina. «Lo avrebbe conosciuto solo nel 1990, recandosi per una prima volta in Italia, prima di stabilirvisi definitivamente nel 1991. Tefta invece non lo vide mai più. Leone morì poco prima che anche lei emigrasse, nel 1993».

Dopo la deportazione di Leone, Tefta si ritrovò con un figlio da crescere da sola e con Rudina da accudire. Era formalmente libera, ma la Sigurimi la teneva d’occhio. La provocava. «Una notte alcuni agenti entrarono nell’appartamento. Fecero qualche domanda. Uno di loro accese una sigaretta; brillava nel buio. Se ne andarono dopo un po’. La vita per Tefta divenne pesante. Si convinse che il regime, prima o poi, avrebbe fatto del male a lei, a me e a Pierino. Così, emotivamente sfinita, prese una decisione drastica. Alla fine del 1954 raggiungemmo la mamma e i fratelli nel campo di Pluk, nei pressi di Lushnjë, dove erano stati trasferiti dopo la chiusura di Tepelenë». Non appena vi giunsero, le autorità del campo dissero a Tefta che poteva restare, ma avrebbe dovuto fare ogni giorno l’appello, al pari di tutti gli altri internati. Doveva rinunciare alla libertà, in altre parole. E lo stesso valeva per Rudina e Pierino. «Mia sorella era cosciente di ciò che ci attendeva, ma la sua vita, con la Sigurimi che non le dava tregua, era diventata insostenibile. Pensò che se proprio dovevamo soffrire, era meglio farlo con i nostri cari, condividendo la stessa sorte».


PARTE II
19 dicembre 2019

«Mi sembra strano che siamo in Italia, che possediamo un’automobile e che a casa abbiamo l’acqua corrente e la lavatrice. Osservo queste cose con curiosità, la stessa che potrebbe avere una bambina. Forse deriva dal fatto che la mia infanzia, non essendo mai iniziata, sta da qualche parte dentro di me, pur se ormai sono anziana».

L’infanzia, e l’adolescenza: a Rudina Dema il regime tolse anche quella. La passò tutta nel campo Savra, dove sarebbe rimasta fino al 1964. Lei e i familiari vi giunsero dopo un paio di anni trascorsi a Pluk.

Anche Savra si trovava nel distretto di Lushnjë. Di giorno Rudina lavorava la terra per una cooperativa; di sera frequentava la scuola. Conseguì la licenza media con molti sacrifici. Una vita miserevole, dura. Comunque migliore di quella di Tepelenë. «Lì tutti i prigionieri stavano in un unico grande ambiente. A Savra ci diedero una stanza tutta per noi, per me e i miei familiari. Era all’interno di una baracca. Non avevamo il bagno, si doveva andare nel cortile. Però almeno stavamo per conto nostro».

Non c’era Sazan. Nel 1951, subito dopo la liberazione di Rudina, era riuscito a evadere da Tepelenë. «Era svelto, aveva sedici anni, trovò il modo di scappare eludendo il controllo delle guardie». Lo catturarono poco dopo, e scontò quattro anni in prigione ad Argirocastro. Una volta scarcerato riuscì a fuggire in Jugoslavia. Poi andò in Grecia, in Italia e in Germania. Infine negli Stati Uniti. Vive nel Missouri, ed è un cittadino americano.

Dopo la fuga di Sazan, Vasfie fu torturata. «La appesero a un albero a testa in giù, mettendole davanti alla faccia un secchio pieno di merda. “Dicci dov’è tuo figlio o ti ci ficchiamo dentro”, le intimarono». Ma lei non lo sapeva, e le guardie non ebbero il coraggio di dar seguito a quella minaccia. Un’altra umiliazione la subì a Pluk, quando gli agenti della Sigurimi le comunicarono la morte del marito Hysni. «È crepato in Grecia», le dissero sprezzanti. Usarono proprio quella parola: crepato.

Nel 1964 il governo alleggerì la morsa sui detenuti politici con una misura per la libertà vigilata. I beneficiari potevano vivere e trovare un lavoro all’interno di precise aree, delimitate dalle autorità. Rudina e Tefta usufruirono del provvedimento. Ali e Vasfie no, e rimasero a Savra. Vera invece si trovava da qualche tempo a Tirana, dove si era sposata con Qazim Kuca, autista in un’azienda di trasporti. Anche i suoi familiari avevano avuto dei problemi con il regime, e con i Dema si conoscevano. Le autorità accordarono a Vera il permesso per lasciare il campo di Savra e vivere con Qazim. L’amore, almeno quello, non veniva proibito. Non sempre. Nel 1968 la coppia ebbe un bambino, Engjell.

La zona entro cui Tefta e Rudina potevano godere della libertà vigilata era compresa tra le città di Lushnjë, Fieri, Berat e Kavajë ed Elbasan. Scelsero di andare in quest’ultima. «Tefta credeva che in quella città, una città grande, con una buona base culturale, avremmo potuto trovare un lavoro decente e vivere in pace». Tra aspettative e realtà lo iato fu profondo. «Non era facile ottenere un impiego dignitoso, dato che avevamo una reputazione compromessa. Trovammo lavoro solo negli oliveti della zona, e più tardi in una sartoria come operaie. Ogni giorno, al mattino e alla sera, andavamo al commissariato a deporre la firma. Scontammo poi la diffidenza della gente del posto. Ci chiamavano “le due puttane”».

Pierino non era con loro. Tefta lo mandò a Tirana da Vera affinché potesse frequentare una buona scuola. Voleva garantirgli un futuro migliore del suo. A scuola, in quegli anni, ci andò anche Rudina. Di sera, a lavoro finito, come faceva a Savra. Riuscì a guadagnarsi il diploma liceale.

Gli anni di Elbasan non furono certo felici, ma un ricordo piacevole Rudina lo custodisce. Nel 1971 riuscì a prendere parte a un viaggio-premio al mare, a Valona, offerto dal regime a un gruppo di giovani addetti della sartoria dove era impiegata. Per un periodo avevano prestato lavoro volontario sulle colline alle spalle di Elbasan: lo Stato aveva bisogno di braccia forti per dissodare quella terra arcigna e impiantarvi degli oliveti. Rudina non aveva mai visto il mare, e pregò un funzionario del Partito del Lavoro, il partito unico ai tempi del comunismo, di aggregarla alla comitiva pur se quel viaggio-premio non le spettava. «Si occupava di giovani e di lavoro. Sapeva chi ero e da dove venivo, ma dato che in sartoria mi davo da fare aveva una buona opinione di me. Riuscii a convincerlo». E dunque Rudina scoprì il mare. «Mi sedevo sulla spiaggia a gambe incrociate, guardavo le onde e piangevo. Provavo un grande senso di libertà».

Ma Rudina la libertà, una libertà degna e piena, non l’aveva mai assaporata per davvero. E anche quella vigilata a un certo punto cessò. Gliela revocarono nel 1975. Era il periodo del processo e della condanna a morte nei confronti di Beqir Balluku, ministro della Difesa dal 1952, accusato di tramare contro Hoxha. Nell’Albania comunista capitava spesso che alle faide intestine ai vertici del sistema seguissero ondate di persecuzione generalizzata. Andò così anche quella volta. Rudina e Tefta furono spedite in un campo di Belsh, località del distretto di Elbasan. E lì arrivò anche Pierino, cacciato via da Tirana con la moglie Ikbale, sposata negli anni precedenti, e il loro bambino appena nato: lo chiamarono Leone, come il papà di Pierino. Più tardi la coppia avrebbe avuto altri due figli, Ulisse e Anna.

Anche la famiglia di Vera fu colpita dalle nuove misure restrittive. Le toccò il campo di Grabian, non lontano da Lushnjë. Ali e Vaftie non si schiodarono da Savra. Tre anni dopo, nel 1978, Vaftie sarebbe morta. Rudina pensa a lei ogni giorno. «La mattina, quando bevo il caffè, mi compare il suo volto. Rifletto sulla vita da pezzente che ha fatto nei campi. Si ritrovò senza niente, da signora che era. Provava un dolore enorme, ma se lo teneva dentro».

A Belsh, Rudina lavorò per una cooperativa agricola. «Avevamo un piccolo stipendio, ma non ci si poteva comprare quasi nulla. E allora di notte andavo nei campi della cooperativa per rubare porri, pomodori e spinaci». Per nove anni condusse questa vita ripetitiva e triste. La consolazione era avere accanto Tefta, la sorella prediletta, verso cui nutriva un amore sconfinato. «Dava l’impressione di essere una donna dal cuore duro; era sempre seria. Ma se la conoscevi bene, se la capivi dentro, non potevi staccarti da lei. Per me è stata mamma, nonna, fratello, papà, tutto».

Nel 1984 una svolta: a Rudina fu concessa di nuovo la libertà vigilata, stavolta valida per tutto il territorio nazionale. La ebbe soltanto lei, tra i parenti. Tutti gli altri rimasero nei campi, di fatto fino al periodo del collasso del comunismo. «Forse, poiché non avevo marito, né figli, per il regime ero la Dema meno pericolosa».

Rudina andò a vivere a Tirana. Trovò lavoro in una fabbrica tessile nel quartiere Kombinat, cuore industriale della capitale al tempo del comunismo; oggi sobborgo decadente e dimenticato. Dopo tre mesi conobbe Haxhi Mane, il futuro marito, di cinque anni più anziano, anche lui con una storia dolorosa alle spalle. È un çam, come si definiscono gli albanesi del nord della Grecia, espulsi in massa al termine della Seconda guerra mondiale. La famiglia di Haxhi era benestante. Rudina si trasferì a Durazzo, dove Haxhi risiedeva. Si sposarono. Lei trovò lavoro in una sartoria; lui come muratore. Nel 1988 nacque Megi. Rudina la partorì a 43 anni.

Per lei quella bambina fu un dono di Dio: il suo Dio cristiano. Si era avvicinata da tempo al cattolicesimo. Il primo incontro con la fede lo ebbe a Tepelenë. «Nel campo c’erano anche alcuni preti, li vedevo confabulare e pregare. Ne rimasi affascinata». Nel corso degli anni il suo sentimento religioso crebbe. Pregava in segreto, Rudina, perché nell’Albania comunista vigeva l’ateismo. «Quando sono arrivata in Italia mi sono voluta battezzare. Lo feci nel 1992. Haxhi, che ha mantenuto la sua fede originaria, quella musulmana, non ha posto obiezioni».

Anche a Durazzo, con una famiglia tutta sua, con Enver Hoxha che non era più di questo mondo (morì nel 1985), Rudina continuò ad avere paura. «Non dicevo a nessuno da dove venivo, mantenevo un profilo basso. Sentivo il peso del mio passato, del mio nome, e credevo che il regime potesse richiudermi di nuovo nei campi, in qualsiasi momento».

Il 1990 fu un anno di tumulti e incertezze. Scoppiarono proteste varie. A Tirana, a dicembre, insorsero gli studenti. Il governo barcollò perdendo il controllo della situazione. Nei mesi seguenti in tanti ne approfittarono per andarsene: verso l’Italia, via mare. Non sapevano se il comunismo sarebbe caduto. Nel dubbio, preferirono mettersi in viaggio. L’Italia, il sogno occidente, la libertà.

I primi di marzo del 1991 migliaia di persone si catapultarono nel porto di Durazzo e assaltarono le navi cargo che vi ormeggiavano. Imposero ai comandanti di far rotta su Brindisi, lo scalo più vicino in linea d’aria. Era la sola possibilità per attraversare l’Adriatico perché all’epoca non esistevano collegamenti di linea. Il mare era un muro d’acqua. Tra il 6 e il 7 del mese 25mila albanesi sbarcarono nella città salentina. Rudina e Haxhi viaggiarono a bordo del Tirana, uno di quei mercantili. Quando videro il trambusto sui moli di Durazzo non ci pensarono su troppo: decisero di partire. «Non sapevo cosa ne sarebbe stato di me, di noi, ma l’importante era fuggire via dal quel regime, che non credevo potesse cadere. Ci vestimmo eleganti. Haxhi era in giacca e cravatta, io indossavo un bel vestito. “Andiamo in Italia, non possiamo presentarci da straccioni”, pensavamo. Ma da straccioni arrivammo, dopo una traversata lunga e faticosa, su una nave stipata di persone. Durante il viaggio non facevo che pensare alle mie sofferenze, ma mi sentivo libera, un po’ come quando nel 1971, a Valona, vidi per la prima volta il mare».

Giunti in Italia, Haxhi e Rudina ottennero quasi subito lo status di rifugiati politici. Vissero per un po’ a San Michele Salentino, nel brindisino, poi si spostarono ad Antrodoco, e da lì nella vicina Rieti. È la loro città dal 1991. A stretto giro furono raggiunti da Pierino e dalla sua famiglia, e poi arrivò anche Tefta, nel 1993, una volta accolta la domanda di Pierino per il ricongiungimento con la madre. Vera e Alì, usciti dai campi, rimasero invece in Albania, entrambi a Tirana. Sia loro che Tefta sono passati a miglior vita: Vera nel 2005, Tefta nel 2011, Ali nel 2013. Tefta è sepolta a Rieti.

Haxhi e Rudina sono in pensione. Lui in Italia ha continuato a fare il muratore, come in Albania. Lei invece ha prestato servizio come domestica. Riceve un assegno mensile davvero modesto, ma non si lamenta. «Qui ho trovato la libertà, degli amici, la possibilità di dire ciò che penso e una casa popolare. Con tutto quello che ho passato, può bastarmi».

Nel 2000 Rudina ha ottenuto la cittadinanza italiana, e solo in quel momento è voluta tornare in Albania. «Il passaporto italiano mi ha dato sicurezza, prima non ne avevo. Rimettere piede in Albania non mi emozionò. Quella terra mi aveva tolto tutto. L’unica gioia che provai fu rivedere i familiari».

Oggi Rudina visita regolarmente il Paese in cui è nata. Ha una casa nel centro di Tirana. È stata diverse volte a Tepelenë. Le ho chiesto se dopo tutti questi anni se la sente di concedere il perdono – un principio fondante dalla sua fede, in fin dei conti – a chi le strappò la libertà. «Ne ho discusso anche con il mio sacerdote. Mi ha detto che perdonare è un processo lento, che va portato avanti un po’ alla volta. Ma non so se riuscirò mai a farcela. Credo che sia impossibile perdonare tutto».