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True Story Award 2021

La scuola d’avanguardia a Rimini che può essere un modello anche oggi

Nato nel 1945 il Ceis è meta di pellegrinaggio di maestre e accademici di tutto il mondo. Oggi c’è chi lo mette in discussione, ma la sua storia è importante, così come quella della fondatrice Margherita Zoebeli.

Nel 1945 le condizioni di Rimini sono tragiche: 396 bombardamenti subiti in undici mesi, 600 e passa vittime civili, più di 4mila edifici distrutti, più di 3mila gravemente danneggiati, l’82 per cento della città porta i segni delle bombe. Il sindaco di Rimini Alberto Ciari chiede aiuto al Dono svizzero, un programma di aiuti internazionale. Qualche mese dopo arrivano in città Margherita Zoebeli e Felix Schwarz. Lei è una donna di trentatré anni che nel 1936 durante la guerra civile spagnola ha soccorso e evacuato i bambini da Barcelona verso la Francia e nel 1944 ha fatto la staffetta in Val D’Ossola. Lui è un giovanissimo architetto che ha studiato con il meglio dell’avanguardia europea. Sono due socialisti. Con i fondi del Dono svizzero progettano un centro sociale – docce e mense – con annesso un giardino d’infanzia (un asilo) per 150 bambini. Trovano uno spazio nel centro della città bombardata, accanto alle rovine dell’anfiteatro, e in pochi mesi creano una struttura di emergenza con tredici grandi baracche di legno.

Il centro sociale, passata l’emergenza, viene dismesso; mentre l’asilo – il Ceis, il Centro educativo italo-svizzero – è ancora lì. Le baracche sono state in parte sostituite da edifici in muratura, in parte semplicemente restaurate; in settantacinque anni il Ceis è diventato una delle esperienze di scuola più importanti e innovative non solo italiane.
La ragione per cui questa storia è conosciuta, studiata, ma non è certo famosa, è forse data dal fatto che Margherita Zoebeli (1912-1996) non ha mai scritto un libro, non ha mai battezzato un metodo, o forse semplicemente perché è una donna. Intervistata decine di volte (la più bella, da recuperare, gliel’ha fatta Michele Golinucci per un vecchio programma di Radio 3, Paesaggio con figura), Zoebeli è un’intellettuale da riscoprire e valorizzare proprio se si vuole ripensare la scuola in un momento di emergenza e di sperimentazione come quello che si aprirà a settembre.

Il Ceis si presenta – a un bambino, a un adulto, a un visitatore – come un villaggio, ed è il nome che i bambini stessi gli hanno affibbiato dalla sua nascita: il villaggio italo-svizzero. “Svizzero” è rimasto e rimarrà nella denominazione, ci tiene a dirmi la nuova direttrice, Ilaria Bellucci, non solo come omaggio a chi ne permise l’esistenza. Visto dall’alto occupa i due terzi di un ovale il cui terzo restante è occupato dalle rovine dell’anfiteatro romano. Ma vederlo dall’alto, nell’insieme, non restituisce il senso stesso del progetto.
Monica Maioli, architetta, consigliera della Fondazione Zoebeli e una delle curatrici del libro sul Ceis Lo spazio che educa, ci tiene a mostrarmi come il fatto che, dall’interno del villaggio, si scopra un pezzo di visuale alla volta fa propria la filosofia dell’architettura con cui Schwarz dispose le baracche. L’architetto che ispirò Schwarz, Aldo van Eyck, parlava di “chiarezza labirintica”, un ossimoro che indicava la possibilità di emulare la dimensione urbana per i bambini, o meglio proprio quella del borgo: da scoprire, da esplorare, e capace quindi di nutrire continuamente la curiosità di chi lo attraversa.

In una baracca c’è la mensa, in un’altra si fa lezione di inglese, in un’altra lezione di musica… In ogni baracca lo spazio è ampio e modulare, pensato in modo che si possa lavorare a piccoli gruppi, e che lasci anche la possibilità di isolarsi per riflettere o lavorare per contro proprio. I bambini possono spostarsi liberamente da una baracca all’altra senza il controllo degli adulti; anzi gli viene chiesto espressamente di usare a turno degli appositi carrellini appesi all’esterno delle baracche per trasportare le colazioni o il materiale didattico per i compagni. Intorno al villaggio c’è solo una bassissima ringhiera e diverse entrate sempre aperte. “Nessun bambino è mai uscito?”. “No, in tutti questi anni solo uno, qualche anno fa”, mi risponde Maioli. “Se n’era tornato da solo a casa”.

Il Ceis è stato il centro irradiante di sperimentazioni e riflessioni pedagogiche dalla fine degli anni quaranta in poi, meta di pellegrinaggio di giovani maestre e accademici, di attiviste e anche architetti – da Ludovico Quaroni a Giancarlo De Carlo che ha poi collaborato per molti decenni con il centro con diversi progetti. L’Mce (il movimento di cooperazione educativa) ha preso le mosse da qui; i seminari Cemea (Centri di educazione ai metodi dell’educazione attiva) sono stati inaugurati dalle prolusioni della Zoebeli; Scuola città Pestalozzi a Firenze ha pescato molto dal Ceis, così come figure che oggi sono riconosciute cardinali per la pedagogia italiana del novecento: da Gianni Rodari a Mario Lodi, da Loris Malaguzzi a Aldo Visalberghi a Francesco De Bartolomeis che in un’intervista recente ne ricordava la centralità assoluta, a Goffredo Fofi che è stato l’intellettuale italiano che più ne ha seguito l’evoluziuone, ne ha studiato e ricordato il valore nei diversi decenni.

“Tutti maschi”, faccio notare, mentre sono l’unico maschio anche io di fronte a cinque donne che, sedute nel piccolissimo soggiorno di quello che fu l’appartamento della Zoebeli dentro il Ceis, mi stanno raccontando la storia di quelle pareti: Monica Maioli, Ilaria Bellucci (l’attuale direttrice attuale del Ceis), Carla Semprini Cesari (maestra del Ceis in pensione e vicepresidente della Fondazione Margherita Zoebeli), Grazia De Paulis (collaboratrice storica del Ceis fin dagli anni sessanta), Fiorella Zangari (direttrice tecnico-pedagogica servizi educativi del Comune di Rimini ora in pensione e nuova consigliera della fondazione) e Eleonora Forlani, anche lei ex educatrice, amica di Zoebeli, combattiva e sarcastica, che mi dice:

Sì, questo è un aspetto che in genere si sottovaluta. Non hai idea di quanti hanno “usato” Margherita. C’era molta gente che frequentava il Ceis, e lei si lasciava “usare” con grande dignità e anche ironia. Margherita procedeva sempre oltre, era una capacità femminile, andava oltre i campi disciplinari. Era consapevole, è stata usata e si è fatta usare perché ci teneva alla causa.

La causa che Margherita Zoebeli ha difeso fino alla morte è quella di una di una straordinaria anomalia – un asilo-borgo nel centro di una città turistica – che nei decenni si è dimostrata sempre più tale, di un metodo che veniva sperimentato ogni giorno, discusso collettivamente, confrontato con altre esperienze europee e internazionali.
Fa specie girare tra le baracche di legno – in questi giorni in cui dopo il lockdown è stato riattivato il centro estivo – e confrontare questo spazio libero, immaginato a misura dell’autonomia dei bambini, con la retorica del controllo e delle telecamere che oggi è invalsa nel dibattito su scuole e asili.

Quest’anomalia oggi è diventata intollerabile per una parte sempre più ampia della politica riminese. Proprio nei giorni di lockdown il capogruppo della Lega nel consiglio comunale ha voluto spendere il suo tempo contro il Ceis: “La fase 3”, ha dichiarato, “dovrà iniziare con l’urgente recupero dell’anfiteatro romano e lo spostamento del Ceis. Nella proiezione futura dobbiamo mettere in cantiere da subito le grandi opere e, soprattutto, i nuovi progetti comunali”. I nuovi progetti comunali consistono nella cancellazione di quest’esperienza unica, che ormai ha un valore storico tanto quanto l’anfiteatro romano; ma la miopia culturale che spinge a fare cassa sul consumo turistico immagina di poter stravolgere questo piccolo pezzo di città in nome di “grandi opere” e “innovazione”.

Non è facile presentare l’importanza di questa storia, ma se è vero che non abbiamo un libro simbolo che riesca a riassumerlo, abbiamo comunque la fortuna di poterla ricostruire a partire da diversi testi: due libri fondamentali a lei dedicati, entrambi a cura di Carlo De Maria, Intervento sociale e azione educativa e Lavoro di comunità e ricostruzione civile in Italia, pubblicati rispettivamente nel 2012 e nel 2015; decine di migliaia di fogli manoscritti e dattiloscritti di Zoebeli, con relazioni per conferenze, appunti, epistolari, etc… conservati nel fondo alla biblioteca Gambalunga di Rimini e catalogati dallo stesso De Maria; e i volumi rimasti della libreria del suo appartamento dentro il Ceis in cui ha vissuto fino alla morte, che non sono stati ancora catalogati – “Sono solo una parte, molti libri Margherita li regalava, li prestava”.
La figura di Margherita Zoebeli giganteggia ancora nelle parole di chi l’ha conosciuta, molti ricordano come mettesse soggezione da una parte (“il suo essere svizzera”), come fosse in fondo spesso sola (senza affetti famigliari, in molti casi osteggiata da politici miopi), e come la sua autorevolezza fosse mitigata da una sorta di dolcezza: “Diceva sempre quello che pensava mai in un modo mai aggressivo”, mi dice Grazia De Paulis.

Ascoltando le parole di chi l’ha conosciuta, leggendo questi libri, andando a ritrovare i nomi degli autori che sono stati compagni, maestri e allievi di Zoebeli, si possono riconoscere le culture che hanno aiutato Zoebeli a definire l’ispirazione del suo progetto pedagogico e implicitamente politico. Ci sono i testi classici del socialismo soprattutto quello anarchico di inizio novecento – Gustav Landauer, Martin Buber, Petr Kropotkin (Eleuthera ha da poco ripubblicato il meraviglioso Mutuo appoggio). Ci sono i saggi di psicologia di Alfred Adler, di pedagogia di Celestin Freinet e John Dewey (ovviamente) e i libri di quella stagione luminosa che ha accompagnato la rinascita della scuola italiana nel dopoguerra, a partire dall’impronta del “ministro del comitato di liberazione nazionale” Carleton Washburne, inventore delle scuole Winnetka: e quindi Lamberto Borghi, Ernesto Codignola, Francesco De Bartolomeis.

Di loro si possono rileggere e in molti casi andrebbero ristampati saggi capitali che pubblicò Nuova Italia negli anni cinquanta e sessanta e che contribuirono a fare della scuola italiana un’avanguardia planetaria. Come si può “usare” Memoria come futuro che raccoglie una serie di testimonianze di molti che hanno conosciuto e vissuto il Ceis (Rita Levi Montalcini, Tonino Guerra, tra gli altri) e una serie di documentazioni fotografiche incredibili, di chi già nel dopoguerra aveva riconosciuto la straordinaria anomalia che Zoebeli si era inventata e insieme lo spirito di ricostruzione che animava la città di Rimini: Ernst Koehli, Werner Bishop, Decio Camera, Enrico De Luigi sono alcuni dei nomi dei fotografi…
Nella scheda – oggi conservata nell’archivio della biblioteca Gambalunga – che Zoebeli fa redigere a una classe della scuola materna nel 1962 c’è una cronologia con date fondamentali del Ceis. 1946, c’è scritto, ha luogo l’inaugurazione del centro italo-svizzero. Entra in funzione la scuola materna; 1947. Si istituisce la prima classe elementare. Riunione importante: S.E.P.E.G.
Fa davvero impressione osservare la potenza visionaria e politica di questo gruppo di ragazzi che venivano da tutto il mondo per ripensare l’educazione attraverso le trasformazioni sociali e viceversa. Le riunioni Sepeg sono una chiave per capire cosa stava avvenendo al Ceis e non solo, ma sono una lente per capire soprattutto cosa sarebbe potuto accadere.
Sepeg sta per Semaines Internationales d’Etude pour l’Enfance victime de la guerre. Nel 1947 (4-14 maggio 1947) e 1948 (3-13 maggio) si organizzano presso il Ceis due convegni internazionali, una specie di seminari residenziali, ai quali partecipano tra gli altri “il pedagogista Carleton Washburne, il marxista dissidente Pierre Naville, Pierre Bovet, O. Forel, Ernesto Codignola che stava creando Scuola-città a Firenze, lo psicanalista Cesare Musatti, Aldo Visalberghi, Guido Calogero con sua moglie Maria Comandini – entrambi stavano fondando le comunità sociali dei Cepag –, il poeta allora quasi sconosciuto Rocco Scotellaro, tutti impegnati in una “ampia riflessione critica sulle questioni relative alla ricostruzione morale e materiale del paese, a partire naturalmente dalla centralità della scuola”.
Tra le relazioni di quelli che sono tra i massimi pedagogisti del novecento, quella di Codignola critica la cultura non esperienziale, abbozza una visione di lungo periodo.
Da circa un quarto di secolo a questa parte si sono fatti molti tentativi di Riforme della scuola e di Scuole nuove, ma quasi tutti sono falliti, non escluso il tentativo del professore Leone Tolstoj, che ha interpretato la libertà in senso anarchico. La legge si presenta come ostacolo; interiorizziamo la legge, perseguiamo la libertà, quando la persuasione interna, quando l’adesione completa dell’individuo sostituisce la legge, allora si realizza la libertà. L’equivoco sta nel pensare che alla vecchia autorità si possa sostituire una soggettività ispirata all’arbitrio. Bisogna intendersi anche con il termine autogoverno. Se autogoverno vuol dire che il fanciullo da mattina a sera può fare sempre quel che più gli aggrada, e se in tal maniera esso sostituisce l’educazione tradizionale, non possiamo che avere il fallimento. Autogoverno vuol dire risultato di una disciplina interiore, conquista di libertà, quando libertà è interiorizzazione e non abolizione dell’autorità.

La conferenza di Washburne è una sintesi perfetta dei temi che riguardano il dibattito sulla scuola, le avanguardie educative, le scuole nuove. Fa specie sentirle in bocca a quello che è stato il primo ministro dell’istruzione della repubblica italiana de facto, osteggiato dallo stesso governo che avrebbe dovuto rappresentare. Le sue idee di riforme saranno annacquate dal tentativo (riuscito) di superare l’impianto fascista della scuola senza toccare quelli che sono i cardini dell’educazione autoritaria, trasmissiva, confessionale. Rimarranno la struttura classista che si era inventato Giovanni Gentile nella riforma fascista del 1923, rimarrà l’invadenza delle scuole private.

Quando si parla di scuole d’avanguardia, dei loro metodi, dei risultati raggiunti, c’è sempre il pericolo di trovare in chi ascolta due atteggiamenti diversi, uno di ammirazione, uno di dubbio, che si traducono in questo modo di pensare: molto interessante, ma come tradurlo in azione in una scuola come la mia, e soprattutto in questa località? Questo è molto bello ma si può realizzare a Firenze o Winnetka o in grandi città dove si trovano locali adatti, aiuti, dove la gente capisce, dove insomma per una serie di circostanze si è creato un ambiente favorevole.

Washburne riassume con grande chiarezza la storia della sperimentazione di Winnetka, ma soprattutto indica quali sono gli elementi qualificanti di questa sperimentazione. Il primo è il confronto continuo. Le riunioni in piccoli gruppi tra docenti alla fine della giornata. Poi, la capacità di mettersi sempre in discussione.

Ricordo una vecchia insegnante di matematica, di 60 anni, che aveva insegnato a intere generazioni. Una volta l’ho trovata in corridoio, intenta a preparare la lezione per la lezione di matematica con un metodo nuovo. Le dissi che non era necessario cambiare, aveva fatto sempre bene da tanti anni, perché voleva affannarsi. Meraviglia dell’insegnante e grande sospiro di sollievo e poi esclamò: Ma questo è molto utile, mi aiuterà! e continuò a lavorare.
Ma delle tante riflessioni che il Ceis riesce a squadernare, quella che oggi è forse più interessante è sullo spazio. Margherita Zoebeli e Felix Schwarz hanno prodotto insieme un unicum, facendo convergere due culture disciplinari diverse, la pedagogia e l’architettura, ma avendo ben presente la stessa matrice politica: il socialismo. I due si sono inventati un progetto che dava corpo alle idee più radicali che sarebbero circolate per i decenni successivi molto prima della loro divulgazione. La scuola, se ne rendono conto entrambi, ha bisogno di adattabilità, flessibilità, e questo si traduce per la progettazione degli spazi e dei tempi scolastici in modularità, nell’intercambiabilità.
In un articolo della primavera 1946, pubblicato sul periodico locale Città nuova, Schwarz scrive come premessa: “L’architettura è l’espressione più chiara della volontà, delle intenzioni politiche dell’umanità. L’uomo servendosi direttamente dell’architettura, ne è direttamente influenzato. Fedeli alle nostre concezioni socialiste, tentiamo di organizzare il materiale da costruzione di cui noi disponiamo in modo da favorire attraverso le forme ambientali la libera educazione dei nostri bambini”.
C’è un’unica intervista che ha rilasciato Schwarz sul Ceis. Gliela fa Hannes Dubach nel 2012, il 19 marzo, e la sua testimonianza ribalta una doppia vulgata: quella dell’intervento fortunoso, quella della solitudine di Margherita Zoebeli nell’ideazione dell’asilo.

Il suo compito per Rimini era creare con materiale messo a disposizione, anonime baracche militari, un “villaggio”, un centro sociale. Quali idee di Roth e Moser della Nuova Scuola era possibile assumere per questo progetto? Forse la disposizione e l’attrezzatura delle singole baracche anziché l’insieme del villaggio?
Non solo. Hermann Baur aveva costruito a Basilea la scuola padiglione, alla fine degli anni ’30: questo era il modello educativo-pedagogico. Si dovevano dunque creare spazi all’aperto, cioè spazi liberi: l’insegnamento non doveva aver luogo esclusivamente dentro l’aula. Credo di ricordare che questo era fin da principio un tema ricorrente di Margherita.

Il centro della riflessione pedagogica con Van Eyck è nell’elaborazione di uno spazio che superi il concetto di aula e vada verso i cluster, una costruzione flessibile nell’impianto e nella struttura. Il Ceis sembra un modello per quella che sarà la concezione miliare per la nuova spazialità della scuola nel dibattito europeo del dopoguerra. Nel 1950 uscirà il libro di Alfred Roth, maestro e ispiratore di Schwarz che collabora lungamente con lui, The New School. Das neue Schulhaus. La école nouvelle. Oltre a elencare una ventina di esempi di architettura scolastica innovativa da tutto il mondo (c’è la scuola Bruderhold a Basilea come Impigton School progettata da Walter Gropius a Cambridge, come Crow Island School nella Winnetka di Washburne progettata dai fratelli Will e Wheeler Perkins e Eero Saarinen; l’unico esempio italiano è l’asilo comunale di Ivrea progettato da Figini e Pollini), Roth enuncia sei principi che sono al tempo stesso pedagogici e progettuali.
1. Il bambino non è un oggetto ma il soggetto dell’educazione e della scuola.
2. L’educazione deve valorizzare la pienezza dell’essere umano, la sua vita psichica come la sua vita intellettuale. Sono necessari un insegnamento e delle attività molto vari.
3. L’insegnamento dev’essere adattato all’età e alla natura del bambino.
4. L’educazione a scuola dev’essere concepita come la continuazione dell’educazione a casa. Da cui deriva un ambiente in stretta correlazione con quello di casa.
5. L’intero ambiente dove vive il bambino è una parte integrante dell’educazione.
6. Il bambino è di natura pieno di fantasia e creatività. Ama ciò che è vivo e concreto.

Come scrive Maioli, la collaborazione tra Felix Schwarz e Margherita Zoebeli ha prodotto un progetto che concretizza queste idee oltre anni prima della divulgazione. La scuola, si rendono conto entrambi, facendo convergere due educazioni disciplinari diverse, ha bisogno di adattabilità, flessibilità, e questo si traduce per la progettazione degli spazi e dei tempi scolastici in modularità, nell’intercambiabilità.
Rispetto alla gretta polemica che la Lega e anche qualche politico progressista ha voluto cavalcare per delegittimare la funzione storica del Ceis e soprattutto la smisurata mole di riflessioni a cui ha dato vita, possiamo citare in fondo un altro piccolo libro prezioso uscito nel 2017, Ruderi. Baracche. Bambini., a cura di Andrea Ugolini. È un testo che riesce a fare un passo in più: valorizza proprio l’anomalia per la riprogettazione dello spazio del Ceis e di altri spazi. C’è un saggio di Tessa Matteini sulla relazione tra spazi educativi e spazi archeologici che è illuminante per ripensare la riprogettazione urbana delle città italiane, e c’è un saggio di Kristian Fabbri sulle caratteristiche microclimatiche e energetiche delle baracche che è una vera scoperta di come si possono inventarsi le scuole ai tempi dell’emergenza climatica.

L’evidenza che ricaviamo, mentre ricordiamo Zoebeli e visitiamo il Ceis, che non soltanto è esistita in Italia una storia di grandi innovazioni pedagogiche, ma che tutto questo può aiutarci moltissimo a progettare gli spazi che andremo a abitare domani, e anche per questo aspetto che l’ideologia socialista ha molto più da insegnarci di quello che immagineremmo.